banner1.jpg

Il CAI e l'ambiente

Un'alba indimenticabile

Quando ci si riduce, per l’età, ad andare in montagna con l’auto e, dopo aver fatto una passeggiata d’un paio d'ore si torna a casa e ci si butta sul sofà, può capitare che torni in mente una camminata di tanto tempo fa.

Avrò avuto quindici anni, quando con i soliti amici decidemmo d’andare a Pizzo Meta; la sera prima s’aggregò un altro amico che aveva tre o quattro anni più di noi. Partimmo verso le tre o le quattro da Sarnano, ovviamente a piedi, perché allora si faceva così. Giunti alla prima curva dopo Piobbico, mentre ci accingevamo a percorrere ancora un po’ di strada per imboccare la mulattiera che stava più avanti, l’amico più anziano disse: “Ma dove andate? S’imbocca da qui che si fa prima!”. Obiettammo che ci sembrava troppo ripida. “Ma se l’ho fatta tre o quattro volte... andiamo!”. Gli demmo retta. Ma appena alla “Forcelletta”, che sta come un dente al termine della lunga rupe rocciosa che sovrasta la “selva Riberta”, sentivamo già tutti la dura salita anche se l’aria era fresca, perché era ancora notte e le stelle erano ancora più fitte e più grandi di come le vedevamo abitualmente da Sarnano. Continuammo a salire. Sulla sinistra avevamo il baratro del fosso Lardina che prende più a valle il nome di fosso dell’Abbadia. In fondo s’intravedevano i grigi pilastri rocciosi che formano la base della parete che sale a Sassotetto. Poco dopo  decidemmo di fermarci e sederci sulle pietre. Benché fossimo in estate, erano gelide; si stava meglio seduti in terra. Riprendemmo a salire mentre si cominciava a percepire l’alba. Poco dopo uno disse: “Guardate laggiù!”. Ci girammo e vedemmo un piccolo bordo del sole nascente sull’Adriatico.

Il mare divenne un’immensa lastra d’oro.

Il grande silenzio della montagna fu rotto da un concerto di fischietti e trilli: gli animali salutavano il ritorno del sole. Man mano che la luce aumentava e si diffondeva, i burroni in fondo al fosso Lardina mutavano il grigio in un caldo bianco-rosato; il fogliame della selva Riberta scintillava. Le rocce di Sassotetto s’illuminarono...

Angiolino Ghiandoni

presidente del “Centro studi sarnanesi

il seguito nel prossimo Pizzo Meta

Turismo sostenibile nei parchi

Negli ultimi anni, in qualsiasi documento di piano o di programma, a ogni livello di governo territoriale, si continua a ribadire, come un mantra, il concetto di “turismo sostenibile”. Forse, alcuni credono che, più lo si ripeta, più facilmente si possa raggiungere un determinato effetto. In realtà, esso non è una formula magica e, soprattutto, riguarda obiettivi ben misurabili: 1) la tutela e il miglioramento del patrimonio naturalistico e culturale, affinché possa essere utilizzato anche dalle generazioni future; 2) la produzione di effetti positivi sulla qualità dell’abitare, che include anche alcuni indicatori socio-economici, come l’istruzione, l’occupazione e il tasso d’imprenditorialità giovanile.

Il turismo, inteso come viaggio eminentemente orientato al piacere, si è sempre sviluppato a partire dalle “frontiere” dello spazio urbano e periurbano (di passaggio dall’urbano al rurale n.d.r.) ordinario. Entroterra remoti e celati, o isolate porzioni di litorali non ancora segnate da processi incombenti di trasformazione urbana e territoriale sono divenuti così prodotti pregiati di quello stesso sistema produttivo che, concentrandosi altrove, li aveva sinora marginalizzati. In questo scenario, si snoda la storia dei parchi naturali che, da quasi un secolo e in modo progressivamente crescente, contraddistingue l’intero territorio nazionale e da molto più tempo quello americano o del nord Europa.

La sensazione di distacco dalla natura, che segna la coscienza urbana, è la prima causa della spinta a trovare un opportuno rimedio a questa carenza fuori dalle mura. Il cittadino, anche solo per brevi periodi, sente il bisogno di ricrearsi, nel fisico e nello spirito.

I turisti si sono dunque avvicinati ai parchi cercando soprattutto la natura ma, in effetti, hanno incontrato il paesaggio, inteso nella sua accezione più ampia, che certamente include il paradigma ambientale e che mette insieme materialità e immaterialità, oggettività e soggettività, letture fisico-ambientali e interpretazioni intuitive ed emozionali, realtà scientificamente descrivibili e impressioni artisticamente narrabili.

Nell’esperienza americana, questa vicinanza concettuale è, da sempre, pervicacemente innestata nei protocolli pianificatori e gestionali dei parchi nazionali; forse per le loro dimensioni, certamente per le finalità istitutive. Il più antico parco del mondo, che è quello dello Yellowstone e interessa tre stati (Wyoming, Idaho e Montana), per una superficie di 8.900 kmq (quando la dimensione media dei parchi italiani si aggira sui 280 kmq), fu voluto dal 18° presidente degli USA, Ulysses Simpson Grant, per preservare le bellezze sceniche e naturali e per la fruizione turistica. Il legame tra turismo e paesaggio era dunque già negli obiettivi istitutivi.

In Italia non è stato così. I parchi sono nati per motivi strettamente connessi alla salvaguardia di alcune specie animali o vegetali, cui si aggiungeva talvolta la conservazione delle formazioni geologiche e la bellezza del paesaggio.

Molti di essi erano originariamente riserve di caccia o aree di tutela istituite con leggi regionali o nazionali. Il turismo, sostenendo le forme nascenti di attenzione alla dimensione paesaggistica, ha dunque facilitato un passaggio di scala molto importante che potrebbe contribuire a ridisegnare il territorio e la città contemporanea. Ma esso produce ulteriori stimoli. Non si cercano le aree protette solo per la scoperta di natura e paesaggi incantevoli ma anche per vivere meglio, nella consapevolezza che la qualità ambientale porta con sé la qualità dell’abitare.

In questa prospettiva, alle aree protette si assegna sempre più decisamente una nuova mission: divenire modelli territoriali in cui sperimentare una migliore qualità della vita. Dal turismo sostenibile all’abitare sostenibile, il passo è breve. È stata la Convenzione Europea del Paesaggio, redatta a Firenze nel 2000, che ha spostato l’attenzione dal paesaggio oggetto di tutela, tema di nicchia, esplorato dagli appassionati ma piuttosto lontano dalla politica militante, al paesaggio come strumento per riscoprire il piacere dell’abitare, come attesa di molti e non prerogativa di un’élite.

 

prof. Massimo Sargolini

Facoltà di Architettura - Università di Camerino

Walter Bonatti, leggenda dell' alpnismo italiano

La Montagna e la Natura, il 13 settembre 2011, hanno perso Walter Bonatti (81anni), leggenda dell’alpinismo italiano: “Il re delle Alpi”, scalatore, esploratore e giornalista. Negli anni ’70, memorabili i suoi reportage per Epoca, settimanale Mondadori. Ha scritto libri. Era nato a Bergamo nel 1930 e divenne “guida alpina” nel 1954.

Nello stesso anno partecipò alla spedizione italiana, guidata da Ardito Desio, che permise ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli di conquistare per la prima volta il K2 (m 8611). Bonatti, a 23 anni, era il più giovane della spedizione. Ne riportò solo amarezze. “Esperienze troppo crude - scrisse - per i miei giovani anni”. Dovute al mancato raggiungimento con i due scalatori che avevano piazzato la tenda, ma senza avvisare, 250 m più in alto. Impossibile da individuare. Bonatti passò col compagno pakistano Mahdi una notte (30-31 luglio) all’addiaccio nella “zona della morte” a 50° C sotto zero, senza tenda, sacco a pelo o altro mezzo per ripararsi. Solo alle prime luci dell’alba poterono ritornare al campo 8. Mahdi riportò congelamenti a mani e piedi. In seguito subì l’amputazione di alcune dita. La vicenda divenne “il caso K2”. La bandiera italiana sulla seconda vetta del mondo e la bella tavola di Walter Molino sulla Domenica del Corriere non placarono le polemiche. In ballo: lealtà, senso di squadra e vita. Insomma, “un grosso fardello di esperienze personali negative”. Subì ostracismi. Tuttavia seguitò a scalare, esplorare, fotografare e scrivere per giornali (mai s

La Montagna e la Natura, il 13 settembre 2011, hanno perso Walter Bonatti (81anni), leggenda dell’alpinismo italiano: “Il re delle Alpi”, scalatore, esploratore e giornalista. Negli anni ’70, memorabili i suoi reportage per Epoca, settimanale Mondadori. Ha scritto libri. Era nato a Bergamo nel 1930 e divenne “guida alpina” nel 1954.

Nello stesso anno partecipò alla spedizione italiana, guidata da Ardito Desio, che permise ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli di conquistare per la prima volta il K2 (m 8611). Bonatti, a 23 anni, era il più giovane della spedizione. Ne riportò solo amarezze. “Esperienze troppo crude - scrisse - per i miei giovani anni”. Dovute al mancato raggiungimento con i due scalatori che avevano piazzato la tenda, ma senza avvisare, 250 m più in alto. Impossibile da individuare. Bonatti passò col compagno pakistano Mahdi una notte (30-31 luglio) all’addiaccio nella “zona della morte” a 50° C sotto zero, senza tenda, sacco a pelo o altro mezzo per ripararsi. Solo alle prime luci dell’alba poterono ritornare al campo 8. Mahdi riportò congelamenti a mani e piedi. In seguito subì l’amputazione di alcune dita. La vicenda divenne “il caso K2”. La bandiera italiana sulla seconda vetta del mondo e la bella tavola di Walter Molino sulla Domenica del Corriere non placarono le polemiche. In ballo: lealtà, senso di squadra e vita. Insomma, “un grosso fardello di esperienze personali negative”. Subì ostracismi. Tuttavia seguitò a scalare, esplorare, fotografare e scrivere per giornali (mai sul K2) dai luoghi più belli e impossibili: dal Namib all’Amazzonia. Nei libri invece tornava spesso a quei dolorosi ricordi giovanili.

La “versione Bonatti” fu ufficializzata dal Cai solo nel 2008. Dopo cinquant’anni d’esilio dalla tv, la prima uscita a “Che tempo che fa” di F. Fazio (17-1-2009). Ebbe compagna della vita l’attrice Rossana Podestà. I funerali civili si sono svolti a Lecco (18-9-2011); il corpo è stato cremato e le ceneri tumulate nel cimitero di Porto Venere a picco sul mare. Walter Bonatti era stato alpinista ed esploratore “di terra e di mare”.

Vermiglio Petetta

Corrispondente  del settimanale

“l’Appennino Camerte”

 

Lo spirito del trekking

Con quale spirito si va in montagna?

 

Si deve partire con il fisico in ordine e le cose utili nello zaino come: borraccia d’acqua, panini, mappa, poncho impermeabile, bussola e cellulare. Utile questo non per chiacchierare ma per le emergenze. Non per gli affari: stacca la spina almeno durante l’escursione perché il trekking sia veramente distensivo e tonificante.

 

Rispetta:

l’ambiente (non lasciare rifiuti);

gli animali (non spaventarli, non toccare i cuccioli - i genitori potrebbero non riconoscerli più - e tieni al guinzaglio il cane che ti accompagna, specialmente in vista di pascoli);

le persone che ti accompagnano (l’escursione non è una corsa contro il tempo, socializza e aiuta chi ha difficoltà);

le persone che incontri (salutale per primo e da’ informazioni, se richieste);

il lavoro di chi vive in montagna (segui i sentieri e non scorrazzare su prati e fungaie);

la tranquillità dei luoghi (parla sottovoce perché la persona civile in casa d’altri... e copriresti grida d’aiuto);

te stesso e chi lavora per la tua sicurezza (controlla il meteo e sii prudente per non coinvolgere i soccorritori);

le persone che lasci a casa (informale dell’itinerario prima di partire);

la funzione e le norme dei rifugi (leggi i regolamenti);

i bivacchi e i rifugi incustoditi (non danneggiarli).

 

Infine, se vai in gruppo:

cammina col “passo del montanaro” e in fila indiana (la vipera ha il tempo di allontanarsi);

in salita sii lesto a dire “sassooo!” per avvisare gli escursionisti in basso del pericolo provocato dal tuo scarpone.

Vermiglio Petetta

redattore del giornalino sezionale

“Pizzo Meta”

Sulle orme del Meschino

 

L’escursione più fascinosa dell’anno 2011: sul monte Sibilla (2173 m) dal rifugio Sibilla (1546 m) per il versante sud-est e sul sentiero che s’arrampica sopra la famigerata strada “a zeta”. Uno scempio che valse al sindaco Francesco Corbelli di Montemonaco il premio Attila. Un’escursione con passaggi accattivanti sulle roccette della Corona tra panorami mozzafiato e atmosfere da favola. Sulle orme di Guerrino detto il Meschino e nella leggenda della Sibilla Appenninica, chiamata nel Medioevo maga o fata Alcina da letterati del ’400, poeti-pastori e negromanti.

La Sibilla, attorniata da fate - dice la leggenda - fu grande ammaliatrice ed ebbe tra i suoi ospiti in quella sua reggia ipogea, incantata nelle viscere della montagna, il Guerrin Meschino, cavaliere errante alla ricerca dei genitori. Il cavaliere ci salì, benché sconsigliato da monaci, e vi fu trattenuto un anno intero. Avuta finalmente la notizia sul luogo dove trovare i suoi, scappò ma, prima di proseguire nella ricerca, passò dal papa a Roma per chiedere perdono d’essersi fermato troppo a lungo... dalla maga. Una leggenda italiana risalente a miti romani e cultura pastorale da Norcia a Montemonaco. Nel Medioevo era conosciuta in tutta l'Europa. Intorno all’anno 1410 il trovatore toscano Andrea da Barberino ci scrisse un romanzo cavalleresco, “Il Guerrin Meschino”. Opera letteraria in otto libri che si diffuse ovunque con la stampa del 1473. Al centro della vicenda c’è Guerrino, figlio di Milone re di Durazzo e Fenisia. In guerra contro gli infedeli, lo affidano alla balia perché lo porti in salvo. Però, rapito dai pirati, è venduto a un mercante greco e da questi ceduto all’imperatore di Costantinopoli come compagno per il figlioletto Alessandro. Guerrino diventa amico di Alessandro tanto da chiedergli di affrancarlo e tenerlo a corte. S’innamora di Elisena sorella del principe, ma non esprime il suo sentimento perché non conosce le proprie origini: per questo inizia a farsi chiamare il Meschino. L’imperatore vuole maritare la figlia Elisena con un torneo per nobili cavalieri e Guerrino partecipa in anonimato. Lo aiuta Alessandro che gli dona vesti e armi. Nei tre giorni vince ogni gara ma, credendosi plebeo, non osa pretendere come moglie Elisena. La mano della giovane viene chiesta da due principi arabi all’imperatore, che si oppone e quelli stringono d’assedio Costantinopoli. L’imperatore, grazie all’aiuto di Guerrino, riesce a sconfiggere i turchi e, alla richiesta di andare a cercare i veri genitori, acconsente interrogando inutilmente gli oracoli per sapere della famiglia del cavaliere. Guerrino parte ventenne alla ricerca del suo passato e giunge dopo un lungo errare nel regno della Sibilla. Tra libri e leggende molte sono le varianti, ma la tradizione vuole che il Meschino passi dai monaci (oggi casale Rosi) che cercano di dissuaderlo. Sicuro di sé giunge alla grotta della Sibilla... La “Grotta delle Fate” (2150 m) rivolta a sud, verso il Lago di Pilato, altro luogo noto perfino in Germania e meta di negromanti. Monte e lago, luoghi d’indubbio fascino. Nel 1420 ci salì il francese Antoine de La Sale. Era venuto in Italia con Luigi III d'Angiò in spedizione a Napoli. Salì da Norcia al monte Sibilla e al lago di Pilato. Studiò quei luoghi tanto famosi e misteriosi. Scrisse un resoconto, “La salade” (l’insalata), con tanto di mappe dell’ascesa. Entrò nella grotta e vide un laghetto. La sua, una delle tante “discese infere”. Da anni l’ingresso è ostruito: un crollo “provocato”, forse per celare segreti e fantasie pastorali. Così la leggenda della Sibilla ha trovato ulteriore alimento. Peccato che i pastori, quelli di una volta, poeti-cantastorie capaci di conoscere poemi a memoria non ci siano più, altrimenti avrebbero ricamato altre storie sui Sibillini, monti che Leopardi vide da lontano e affascinato chiamò “Monti Azzurri”.

Vermiglio Petetta

Corrispondente e disegnatore dal 1984

del settimanale “l’Appennino Camerte”