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Uomo e ambiente

Il futuro del pianeta... è nelle nostre mani

Senza paura di generalizzare, si può certamente affermare che tutti i sistemi culturali e simbolici inventati dall'umanità (scienza inclusa) abbiano lo scopo precipuo di controllare un mondo esterno ostile, di provare con tutti i mezzi ad anticipare un futuro incerto. Il nostro sistema cognitivo sembra avere una predisposizione innata a cercare segni (e a volte a farlo in modo ossessivo) che ci aiutino a leggere e a controllare il futuro. Diverse correnti di pensiero hanno contestato, in questi ultimi decenni, il catastrofismo di alcune visioni apocalittiche relativamente al futuro del pianeta. In un recente, bellissimo, saggio (“L'enigma del tempo e il controllo del futuro”), in pubblicazione nella rivista Spazio-ricerca (Università di Camerino - Kappa edizioni), il filosofo Mauro Dorato riflette sul problema del rapporto tra tempo e pianificazione facendo emergere il nodo dell'imprevedibilità del mondo fisico e del mondo sociale. Mettendo in evidenza le relazioni tra passato, presente e futuro, non ne scorge regole certe di derivazione; troppe sono le variabili che possono intervenire per variare corsi che, a un approccio semplicistico, possono sembrare immutabili. In altre parole all'attuale presente sono associabili più futuri possibili. È la caduta del determinismo ambientale. Ciò naturalmente non significa che un progresso conoscitivo non sia possibile in futuro anche nei sistemi instabili o caotici, com'è il nostro ambiente di vita, ma esso implica comunque la consapevolezza, difficile da accettare, che l'incertezza è parte costitutiva della vita umana. Se, viste le condizioni iniziali e di contorno (come si usa dire con il linguaggio della fisica), non è possibile prevedere il futuro, tuttavia, è sicuro che se continuiamo imperterriti a incrementare la nostra “impronta ecologica” a livello mondiale, non faremo altro che aumentare il nostro debito ecologico, inficiando significativamente le nostre stesse probabilità di sopravvivenza. È possibile assicurare a 7, o a 8, o a 9 miliardi di esseri umani sulla Terra uno stile di vita equivalente a quello di uno statunitense o di un europeo attuale? Le conoscenze scientifiche, che abbiamo sin qui raccolto sulle scienze del Sistema Terra, ci dicono chiaramente che questo è impossibile. Oggi abbiamo una sorta di parola d'ordine che, al solo utilizzarla, sembra poter fornire la soluzione ai tanti e gravi problemi esistenti nel rapporto tra i sistemi naturali e la nostra specie: si tratta dello “sviluppo sostenibile”. Il termine “sostenibile” è stato utilizzato per la prima volta nel 1987 nel Rapporto Burtland, pubblicato dalla Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo, che dichiara: “Sostenibile è quello sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere quelli del futuro”. Vengono conseguentemente definiti “non adatti” tutti quei fattori o sistemi d'uso che possono provocare un deterioramento severo e/o permanente delle qualità del territorio. È, infatti, necessario mantenere il più possibile intatto il livello qualitativo e quantitativo delle risorse naturali, al fine di preservarle per le generazioni future. Sviluppo sostenibile è un'espressione ormai abbondantemente abusata in ogni contesto (soprattutto di tipo politico ed economico) e comunque inserita, spesso solo “con effetto cosmetico”, nei programmi di valorizzazione territoriale. Gli avanzamenti teorici e operativi di tante discipline, alcune delle quali specificatamente dedicate ad approfondire la sostenibilità, non consentono più di essere troppo generici e vaghi nel trattare di questi problemi. Diventa pertanto indispensabile avviare un'operazione profonda, documentata e critica, di vera e propria alfabetizzazione del concetto di sostenibilità dello sviluppo, con la chiara consapevolezza di tutti i limiti, le incertezze e la complessità, esistenti su questa tematica. La politica e l'economia devono ormai prendere atto di quest'e-sigenza e proporre, con urgenza e con grande senso d'innovazione e di responsabilità, una nuova agenda per il futuro del mondo. Allo stato attuale delle cose tante iniziative interessanti si stanno muovendo nella tecnologia, nelle innovazioni di processo e di prodotto, nei meccanismi di mercato, nei meccanismi della finanza, nell'individuazione di nuovi indicatori di ricchezza e di benessere, nei tanti processi che nelle diverse società umane stanno registrando iniziative che mirano alla sostenibilità e che partono, come si suole dire, “dal basso”. Le generazioni viventi a cavallo del XXI secolo sono chiamate non solo a riportare la loro impronta ecologica al di sotto dei limiti della terra ma, insieme, a ristrutturare il proprio mondo, interno ed esterno. Questo processo toccherà ogni ambito della vita e farà appello a ogni sorta di talento umano. Richiederà innovazioni tecniche e imprenditoriali, così come invenzioni a livello comunitario, sociale, politico, artistico e spirituale [...]. Il passaggio dal mondo industriale allo stadio successivo della sua evoluzione non è una sciagura, ma una meravigliosa opportunità. Come cogliere questa opportunità, come costruire un mondo che sia non solo sostenibile, efficiente e giusto, ma anche profondamente desiderabile, è qualcosa che riguarda la capacità di guida, l'etica, l'immaginazione e il coraggio: tutte qualità che non appartengono ai modelli per calcolatore, ma al cuore e allo spirito umani. La sfida che abbiamo di fronte è veramente immensa ed è necessario dare realmente corpo a quella che viene definita la “rivoluzione” della sostenibilità. Walter Stahel, il noto e antesignano studioso dei cicli di vita dei prodotti, ricordando che il valore della sostenibilità sta nella sua capacità di visione, ha ricordato un piccolo aneddoto: alla domanda di cosa stiano facendo, tre tagliapietre rispondono così: uno dice che sta facendo passare le sue otto ore di lavoro, il secondo che sta tagliando la pietra calcarea in blocchi, il terzo che sta costruendo una cattedrale. La sostenibilità è la cattedrale che, tutti insieme, potremmo costruire.                         

                                             Massimo Sargolini

                                         prof. Università di Camerino